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Il Referendum Istituzionale Monarchia-Repubblica del 2 Giugno 1946

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Il Referendum popolare sulla forma istituzionale dello Stato si svolse il 2/3 giugno 1946 e fu convocato con un decreto firmato da Umberto II di Savoia. Il fronte repubblicano non aveva scelto la via rivoluzionaria per liquidare la Monarchia: quest’ultima, se fosse rimasta, non avrebbe sicuramente mandato in esilio gli esponenti del fronte repubblicano sconfitto.

L’esilio ingiusto.
L’aver introdotto nella Costituzione della Repubblica (1°gennaio 1948) la disposizione sull’esilio perpetuo dei Savoia ha rappresentato una violazione delle regole democratiche del Referendum, nel tentativo di salvaguardare la Repubblica dal “pericolo” di un ritorno alla Monarchia.

I Savoia non subirono alcun processo come, invece, avvenne per la classe dirigente politico-militare della Germania Nazista. Il fronte repubblicano in Italia non aveva la forza per farlo, anche perché la Monarchia, malgrado la campagna di criminalizzazione scatenata contro di essa e la sconfitta militare, non si era macchiata di crimini e raccolse, al referendum, quasi la metà dei voti del popolo italiano.

Referendum Contestato (quasi tre milioni di cittadini esclusi dal voto).
Tale referendum in molte regioni si svolse senza che i sostenitori della Monarchia potessero fare liberamente propaganda per la Corona e quasi 3.000.000 di Italiani (prigionieri di guerra non rimpatriati; Italiani delle Colonie; abitanti di Trieste, di Gorizia, della provincia di Bolzano; 300mila profughi della Venezia-Giulia e della Dalmazia; i tanti certificati elettorali non reperiti; ecc.) non poterono votare: troppi se si pensa che essi superano la differenza “ufficiale” fra Monarchia e Repubblica (Monarchia voti 10.719.284; Repubblica voti 12.717.923).

Al Re fu impedito di restare per attendere la proclamazione definitiva dei risultati da parte della Suprema Corte di Cassazione (18 giugno 1946). Nella notte fra il 10 ed l’11 giugno 1946 il governo, senza attendere la seduta finale ed ufficiale della Suprema Corte di Cassazione per la proclamazione dei risultati (18 giugno 1946), trasferisce al capo del governo i poteri del Re, il quale si trova di fronte alla drammatica alternativa o di opporsi con la forza o di partire per l’esilio al fine di evitare spargimento di sangue.

L’ultimo messaggio di Umberto II.
Umberto II, ricevuti gli onori militari, partì per il Portogallo il 13 giugno 1946 dall’aeroporto romano di Ciampino, dopo aver indirizzato il seguente messaggio al Popolo italiano:

“ITALIANI!

Nell’assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato.

E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum.

Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risoluta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.

Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.

Non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il Popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge, e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.

A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace.

Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli.

Viva l’Italia! UMBERTO.
Roma, 13 giugno 1946.”

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