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Un po’ di storia su chi è stato Benito Mussolini

Nel corso del 1911, fra le tante manifestazioni (e scioperi) anche violenti in molte città d’Italia contro la guerra turca a Tripoli e Bengasi, una di queste manifestazioni in particolare assume rilevanza storica, quella di Forlì dove a guidarla è il figlio di un fabbro e di una maestra elementare di Dovia-Predappio: di 27 anni, già con un ricco passato di antimilitarista e di militanza socialista. Da tempo – per come si comportava dentro e fuori la sezione- soprattutto con la sua irruenza nei comizi- aveva già ricevuto dai suoi colleghi socialisti l’appellativo di Duce. Si chiamava MUSSOLINI, di nome BENITO.

Mussolini-benito-duce-italiano

Il Padre, Alessandro Mussolini ammirato dalle gesta di Benito Juarez, impose questo nome al suo primo figlio quando nacque il 29-7-1883. La moglie, insegnante oltre che madre di questo bambino (in mezzo a molta miseria – dove metà della popolazione di Dovia nell’arco di pochi anni era già emigrata in Brasile), fu anche la maestra di suo figlio. E lui stesso poi prese il diploma di maestro, frequentando la Scuola dei preti Salesiani. In questa scuola fu descritto come: “Giovane irruente, impulsivo, ribelle, ma molto intelligente” anche se una nota del direttore inviata ai genitori puntualizzava che “…la sua natura non è acconcia a un sistema di educazione di un Collegio Salesiano”. Di lui come ragazzo, gli amici coetanei dicevano “non discute, picchia”. Ma era anche intelligente ed estroso, visto che a scuola in un tema “Il tempo è danaro” fece lo svolgimento in una sola riga; “Il tempo é moneta, perciò vado a casa a studiare geometria, perché sono vicini gli esami, non le pare signor professore la cosa più logica?”

E non studiava solo quella, ma Storia, Politica, Musica, Poesia. Divenne infine Maestro, ma il fascino di arringare la folla era il suo debole, tenne discorsi celebrativi su Verdi, Garibaldi e altri, che entusiasmavano i presenti con le arringhe, dove poi, quasi sempre, lui sconfinava nella politica più accesa, coinvolgendo le masse con i suoi caratteristici atteggiamenti e una passionale oratoria.
Insegnava a Gualtieri (che era il primo comune conquistato in Italia dai Socialisti), ma presto, pur avendolo nominato i socialisti Capo Sezione, gli venne a noia e emigrò in Svizzera. Due anni e mezzo in giro a fare lo sfaccendato, il disoccupato, il poveraccio, l’insegnante di italiano agli immigrati; ma intanto frequentava le lezioni di economia-politica di VILFREDO PARETO il grande economista (borghese) che insegnava a Losanna; e nel frattempo leggeva molto.
Sue letture preferite: Nietzsche, Marx, Schopenhauer. E scrive anche qualcosa, Ma nei suoi primi scritti non esordisce rivoluzionario; usa il gergo socialista che ha assorbito a casa, ma in questo primo periodo svizzero (1902-1904) il suo inizia a essere originale soprattutto quando i dibattiti fra riformisti e rivoluzionari si fecero roventi. Non ha ancora un pensiero politico autonomo, ma è già un dialettico rivoltoso (del resto era a contatto anche con l’ambiente anarchico) e in questi primi interventi (su L’Avvenire del Lavoratore, Il Proletario, Avanguardia Socialista) si permette già di scrivere che “il socialismo è un vasto movimento pietista, non l’avanguardia vigile del proletariato, ma una accolta di malcontenti, con alcuni vanitosi già compromessi con la borghesia che li usano proprio per far naufragare il socialismo”. Sono dunque già frasi in libertà, fuori da certi rigidi schemi.
Infatti con le varie scuole, le varie dottrine, le frequentazioni e le letture più diverse nel 1909 lo ritroveremo già autonomo, con la sua ideologia già in embrione.

Dopo 2 anni in Svizzera, fece una breve visita in Italia alla madre malata, ma aveva 21 anni e a casa trovò la cartolina di leva. Per evitare il servizio militare, contraffece la data sul passaporto e riespatriò in Svizzera, ma il documento falsificato fu scoperto alla frontiera.
Fu quindi espulso, mentre nel frattempo in Italia lo condannavano per diserzione. I giornali socialisti enfatizzarono, uno scrisse: “E’ stato cacciato dalla Svizzera il socialista Mussolini, il grande duce della “Prima” sezione socialista d’Italia”. Era la prima volta che veniva usato il titolo di duce, che ricordavano gli antichi condottieri romani, ed era anche la prima volta che veniva indicato come grande. Mussolini aveva poco più di vent’anni ed entrambi i due titoli non gli dispiacquero proprio per nulla.
In Italia, ci fu proprio quell’anno l’amnistia per i reati anche di diserzione. Provvidenziale perché gli evitò una condanna, ma il soldato dovette farlo, a Verona nel 10° reggimento bersaglieri. Ci stava apparentemente bene, tanto che si prese perfino le lodi e i gradi di caporale, ma era di idee antimilitariste e predicava la diserzione quando scriveva agli amici. Congedato, fece il maestro a Tolmezzo, poi anche lì divenne insofferente all’ambiente.
Lo andò a fare il maestro a Oneglia, in Liguria, dove si mise a dirigere con impegno anche un piccolo foglio socialista “La Lima”. Qui scopre la sua “strada”, il giornalismo, quello “rovente” e anticlericale, infatti, negli articoli si firma “il vero eretico”, con accuse ai preti di essere “gendarmi neri al servizio del capitalismo”. Durante gli scioperi accennati all’inizio, Mussolini entra subito in diverbio con gli interventisti.
A un capo crumiro, con una mazza in mano minaccia di spaccarlo in due, l’altro non sta al gioco, va a denunciarlo, la sera stessa è arrestato, processato per direttissima e condannato a 3 mesi. Conosce il carcere per 15 giorni; uscito, si ributta in politica, ma alla fine emigra nuovamente all’estero, a Trento (allora austriaca) dove passa intere giornate nella biblioteca comunale a leggere storia e saggi politici, e nello stesso tempo a studiare il violino (“se diventerò bravo ho un mestiere di riserva”), infine trova la tanto sospirata occasione di poter dirigere un foglio.
É “L’Avvenire del lavoratore”, gli da’ impulso, dinamismo, fa raddoppiare le copie del giornale. CESARE BATTISTI il più attivo del socialismo trentino che dirige il “Popolo” lo scopre e lo vuole con se’; lo nomina Redattore Capo. Proprio Battisti nel presentarlo per la prima volta sul giornale, così lo descrive, “è uno scrittore agile, incisivo, polemista, vigoroso, con una buona cultura, multiforme e moderna”, ma subito dopo gli diventa scomodo, incontrollabile e perfino pericoloso, perché Mussolini è impulsivo, interviene con rudezza con tutto il peso delle sua presa di posizione estrema e rigida che inaspriscono le polemiche con gli austriaci per l’autonomia del trentino, mentre Battisti sta operando in un modo più diplomatico, pur dicendo velatamente le stesse cose. Inoltre Battisti non voleva inimicarsi il clero locale, molto legato all’Austria. Non rompe del tutto i rapporti, ma dopo un mese Mussolini già non scrive più sul suo giornale.
A Mussolini, Trento, gli sembrò troppo clericale, e aveva anche una profonda avversione per un giovane leader dei cattolici. Era Alcide De Gasperi che dirigeva Il Trentino e dalle sue colonne rimproverava gli insulti che lanciava il suo collega; ma Mussolini con i suoi articoli a sua volta lo attaccava, lo definiva “pennivendolo” “uomo senza coraggio” “un tedesco che parla italiano, protetto dal forcaiolo, cattolico, feudale impero austriaco e quindi un servo di Francesco Giuseppe”. L’attacco ai preti intanto continuava. Gli avversari politici lo chiamavano “il cannibale dei preti”, e quando in un paesino di Trento si scoprì una storia boccaccesca fra una contadina (in vena di santità) e il parroco locale, che l’aveva messa incinta più volte, Mussolini con la sua vena di scrittore salace, irriguardoso e fantasioso scatenò un putiferio nel raccontarne i retroscena, con il preciso intento di ridicolizzare tutto il clero locale.
In questo clima rovente, come agitatore più che polemista, che metteva a rumore la città, Mussolini non poteva durare, infatti, la gendarmeria austriaca su segnalazione di anonimi, l’accuso’ assieme ad altri suoi amici irredentisti del furto in una banca, gli perquisirono l’abitazione, forse trovarono manifestini anti-austriaci, alcune copie del suo giornale che andava spesso sotto sequestro, trovarono insomma la “giusta causa” e una vaga motivazione per l’arresto e per sbatterlo in prigione. Dopo aver odiato gli svizzeri, Mussolini in galera iniziò a odiare i trentini austriaci, quando, pur non provata né trovata nessuna accusa, seguitarono a tenerlo in carcere senza un preciso motivo. Tanto che per protesta, e informando i socialisti con chissà quali mezzo, iniziò a fare un plateale sciopero della fame per attirare l’attenzione.
Per non farlo diventare un pericoloso martire dei socialisti o creare incidenti diplomatici, i gendarmi lo accompagnarono con i soli vestiti sdruciti addosso al confine di Ala, e lo diffidarono a non mettere più piede nella terra del Kaiser. Mussolini raggiunta Verona a piedi, racimolato qualche soldo alla stazione per il viaggio in treno, rientrò a Forlì, dove visibilmente umiliato passò l’inverno ad aiutare il padre vedovo a servire clienti in un osteria gestita assieme a una certa Annina Guidi, una sua vecchia amante, che morta la moglie si era deciso a viverci insieme, gestendo con lei appunto la trattoria. Un antico rapporto questo che alcuni mormoravano che da lei aveva avuto quella bimba cui avevano dato il nome di Rachele, che la donna allevò. Benito aveva conosciuto Rachele bambina prima di andare in Svizzera, ora al suo rientro l’aveva ritrovata donna e piuttosto attraente; le sue attenzioni furono pari a quelle della fanciulla che a sua volta si invaghì presto del fratellastro.
Forlì’ gli stava stretta e lo divenne ancora di più quando anche in questa città lo arrestarono e lo misero di nuovo in carcere per quindici giorni per aver fatto un comizio non autorizzato.
Nel comizio, teorizzava la rivolta, e incitava a dare alle fiamme il Codice, ne auspicava un altro con nuove leggi. Il suo attivismo lo portava a porsi al di sopra delle comuni norme, e quindi auspicava la “necessita’ della rivolta”. Leggendo Nietzsche lo aveva colpito una frase “vivere pericolosamente”, e ne fece il proprio motto, tanto che pubblico’ un saggio in tre puntate sul giornale “Pensiero Romagnolo”, La filosofia della forza, dove troviamo il pensiero del filosofo tedesco (il superuomo nicciano) che indubbiamente lo aveva affascinato e conquistato (altrettanto quello di G. Sorel – La funzione della violenza nell’agire storico).
In carcere in quei pochi giorni dove era stato ospite utilizzò il tempo a scrivere. Dopo l’esperienza fatta a Trento, dove si era documentato storicamente di un certo periodo della vita politica di quel paese, scrisse un breve satirico romanzo proprio sul Trentino. Cesare Battisti lo pubblicò a puntate sul “Popolo”, a 15 lire a puntata, e il pubblico lo lesse avidamente. Era un racconto fantapolitico “Claudia Particella, l’Amante del Cardinale”, un modo per far la “sua” feroce propaganda politica anticlericale, irridendola.
Ma Forlì dopo le vicende del carcere gli divenne antipatica, anche perché inutilmente bussò a tutti i giornali; infine pensò di emigrare anche lui in Brasile, come avevano fatto tanti abitanti del suo paese Dovia; infatti aveva tanti vecchi amici di infanzia che appunto in Sud America erano emigrati.
Valutò pure di accettare un posto come messo comunale ad Argenta; “sono stanco di stare in Romagna e sono stanco di stare in Italia”, scrive a tutti; ma il 9-1-1910 la federazione socialista di Forlì lo nomina segretario della federazione e gli fa dirigere i quattro fogli di “Lotta di Classe”. Mussolini e’ entusiasta, vede già il suo successo, ne e’ convinto, e’ sicuro di sè, si sbilancia anche troppo “alla prossima ventata spazzerò via Giolitti”, ed economicamente non teme più il futuro perché prende 120 lire al mese; infatti dopo 8 giorni torna a casa e presa Rachele sotto braccio, comunicò al padre e alla matrigna che sposava la sorellastra “senza vincoli ufficiali, ne’ civili, ne’ religiosi”, e con una pistola in mano minacciò in caso di diniego il duplice suicidio. La notte stessa prese due lenzuola, quattro piatti con le posate, la rete di un letto e con Rachele si trasferì in una stanza in affitto con cucinino a 15 lire il mese, e “mise su casa”. Era il 17 gennaio del 1910.
Mussolini aveva 27 anni e Rachele 17. Dopo 9 mesi, il 1° settembre 1910 nasceva Edda. 27 giorni dopo si svolse lo sciopero di Forlì! Con Mussolini attivista in prima fila che gli valse questa volta la condanna a cinque mesi di carcere. Comunque utile per trasformarsi in vittima, martire e quindi diventare ancora più popolare. (Hitler nel ’23, a Monaco ottenne la stessa cosa. Quel processo fu il suo trionfo).
Infatti nel 1912 Mussolini lo troviamo a dirigere l’organo del partito socialista L’Avanti. Si fa portavoce del proletariato ed inizia il 7 gennaio 1913 una feroce campagna contro “gli assassinii di Stato”. Con indignazione si era scatenato per gli incidenti mortali verificatisi durante gli scioperi dei lavoratori che chiedevano miglioramenti salariali, riduzioni d’orari, previdenze, pane e lavoro. Conflitti dove scopriamo all’interno di queste manifestazioni non solo una forte tensione sociale fra padronato e operai, ma anche la prima forte spaccatura dentro i sindacati socialisti, tra i riformisti e i rivoluzionari. Due correnti di pensiero che divideranno in eterno le sinistre; e non solo quelle italiane.
Poi venne la ferale notizia da Sarajevo. L’inizio di quella che doveva essere per tutti una breve guerra, si trasformò ben presto -dopo le prime battute- in una guerra mondiale che andrà a cambiare il mondo. Crolleranno tre imperi, il Reich tedesco verrà sbriciolato, muterà l’intera politica del vecchio continente, nasceranno due grandi influenze ideologiche, e l’intera economia mondiale inizia a prendere due sole direzioni; che non viaggiano in parallelo, ma inizieranno a correre una contro l’altra fino al grande scontro ideologico. Ognuna durante questo lungo viaggio cercando -con tutti i mezzi- di allargare il proprio regno; che questa volta non è uno Stato, né un Continente, ma è in gioco l’egemonia sull’intero Pianeta. Una lotta quindi tra due giganti.
MUSSOLINI dallo stesso giornale, il 20 settembre 1914 lo troviamo prima contro l’intervento in guerra dell’Italia, promuovendo perfino un plebiscito pacifista, poi subito dopo il 18 ottobre 1914 (l’articolo è una “bomba”) lo troviamo improvvisamente schierarsi a favore; titola “da una neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante” che gli costa la radiazione dal giornale e dal partito, il PSI. Un socialismo neutralista ad oltranza, che già in crisi con la disgregazione dell’Internazionale socialista, messo di fronte alle scelte sull’intervento in guerra, che tutti ormai consideravano imminente, e nelle alte sfere necessaria per biechi motivi, lo troviamo -il partito socialista- schierarsi contro la guerra e a promuoverne il disfattismo e fin dall’inizio il suo fallimento. Mussolini non è disposto ad accettare questo fallimento né le limitate vedute di molti dirigenti del suo partito.
L’idea che si è fatta Mussolini (ed è l’unico ad avere una certa lucidità in anticipo sui tempi) è che la rivoluzione socialista è fallita prima ancora di iniziare, e mai il socialismo potrà uscire dalla guerra, vinta o persa, con nuove prospettive.
Le masse – andava dicendo Mussolini- i milioni di individui, dopo aver combattuto potranno imporre domani, a vittoria ottenuta, la propria pace alla borghesia con tutte le carte in regola, perché avranno una propria forza autonoma per farlo, e non avranno bisogno dei socialisti. A guerra persa invece le colpe ricadrebbero solo sui socialisti, che il conflitto non lo volevano e hanno sempre disprezzato chi era stato chiamato a parteciparvi: (tanti, tantissimi, quattro milioni e mezzo di uomini saranno poi).
Insomma i socialisti erano dentro un vicolo cieco. Questo in sostanza aveva sostenuto Mussolini alla vigilia del conflitto, e il ragionamento era impeccabile; ma il guaio grosso fu che la guerra che doveva essere “lampo” fu invece lunga e quando finì terminò in un modo anomalo, non accontentò proprio nessuno; infatti i vincitori (per come furono trattati a Versailles) si ritrovarono in mano quella che fu poi definita una “vittoria mutilata”; in altre parole, una frustrazione per entrambi, per chi l’aveva sostenuta la guerra e anche combattuta (Mussolini e i 4,5 milioni di Italiani) e chi aveva remato contro e profetizzato il totale fallimento (i socialisti – questi erano convinti di poter fare dopo la guerra la rivoluzione del proletariato).
Il 15 novembre del 1914, dopo l’articolo “bomba” e dopo la radiazione all’Avanti, MUSSOLINI fonda a Milano il Popolo d’Italia (finanziato e non del tutto disinteressatamente dalla Edison, dalla Fiat di Agnelli, dall’Ansaldo dei fratelli Perrone ecc. ecc.) con un indirizzo antisocialista, e con iniziali palesi appoggi all’irredentismo che va predicando D’Annunzio e De Ambreis (Ma poi con la “Vicenda Fiume “Mussolini prenderà le distanze dai due “rossi” – vedi partendo dal 1919).
Infine il 6 maggio del 1915, l’altra “bomba”: Mussolini esce con l’articolo “E’ l’ora”. Poi abbandona non del tutto il giornale (terrà un diario di guerra fino al febbraio 1917) e molto coerentemente con quello che ha scritto, si offre volontario.
Non è il solo, parte D’Annunzio, parte Marinetti, e parte Cesare Battisti che incita “tutti al fronte con la spada e col cuore”, poi in agosto parte finalmente anche Mussolini.
C’è in questo slancio forse anche un motivo umano, odia gli Austriaci; il suo è anche un conto personale da regolare! I giorni di carcere a Trento, le accuse infamanti, e le umiliazioni ricevute hanno lasciato il segno!
Al fronte Mussolini non ha la vita molto facile, sia con i soldati che lo ritengono un interventista e sia con lo Stato Maggiore che diffidano di questo ambiguo soggetto fino a ieri a sinistra come oppositore all’intervento. Era nota la sua renitenza, il suo antimilitarismo in piazza del 1911-12, e il suo passato di socialista.
Al Distretto non si fidano proprio. Senza tanti riguardi al suo diploma e al suo mestiere di giornalista lo mandano al fronte, come soldato semplice col grado di caporale. Dopo 16 mesi di guerra, per quaranta giorni Mussolini va anche in trincea, sul Carso, in prima linea sotto le granate austriache; si guadagna perfino il nastrino. Nel febbraio 1917 una sventagliata di schegge, non proprio del nemico, lo colpisce. Resta gravemente ferito. Trascorre in stampelle quattro mesi all’ospedale di Ronchi. Qui nel portare conforto ai feriti troviamo una visita di Re Vittorio Emanuele III. Di certo non immagina nemmeno lontanamente, nel preoccuparsi della salute e nello stringere la mano di questo semplice caporale sulle grucce, di trovarsi di fronte all’uomo che fra soli 5 anni legherà il suo destino a quello di Casa Savoia e a tutta la sua dinastia. Il Destino se era da quelle parti a fare qualche scherzo, quel giorno ne organizzò uno dei più sensazionali.
Dopo la convalescenza, MUSSOLINI rientra al giornale nel luglio 1917. Le cose in Italia sono molto cambiate nel frattempo, l’interventismo, dopo tre anni di guerra, quasi inutili sul piano militare e politico, è in crisi, e sembra – dopo Caporetto- che il disfattismo socialista fra le masse trovi un buon appoggio. Così andava dicendo Cadorna per giustificare i suoi tragici rovesci.
Ma non è così, Mussolini è molto attento, si accorge che le masse hanno avuto uno scollamento dal socialismo e che questo (dopo la disfatta di Caporetto del 24 ottobre) non può certo aspirare alla vittoria di una rivoluzione dopo una guerra persa. Infatti le cose cambiarono, per tanti motivi, interni ed esterni. E anche per tante coincidenze a favore. L’entrata in guerra degli Usa, la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, le Germania in difficoltà (più politicamente che militarmente), l’Austria in sfacelo, ecc.
Alla fine, la guerra non fu persa, ma nemmeno vinta, passerà alla storia come la “vittoria mutilata” dopo le liti a Versailles con Wilson. Questo finale andò ancora di più a complicare le cose. Non c’erano politicamente né vinti né potevano rallegrarsi quelli che la guerra l’avevano boicottata con il disfattismo. Con troppo accanimento, questo esito negativo (nonostante tanta retorica e i proclami) dai socialisti fu fatto pesare molto ai reduci; “che cosa vi dicevamo, ecco il risultato!” e giù il resto. Non era certo il modo per fare proseliti nel chiamarli grulli. E chi era ritornato dal fronte non voleva certo sentirselo dire, dagli “imboscati” poi.
Quello che temeva Mussolini accadde, come aveva previsto e profetizzato. I socialisti riformisti (con Treves e Turati) sono in difficoltà più di prima della guerra, e nemmeno parlarne di poter avviare un dialogo con i padroni; invece di concertare hanno preferito la linea dura con il risultato che gli industriali si sono uniti e hanno adottato la strategia delle serrate.
Mentre i massimalisti dichiaratamente rivoluzionari (con Gramsci e Bordiga), hanno guardato con molta attenzione i fatti russi che avrebbero potuto far aprire delle nuove prospettive; la prossima fine del capitalismo con la tanto attesa rivoluzione. Ma non hanno i seguaci, hanno solo i pochi (e difendono solo questi) che ancora lavorano e che sono poi quelli che non hanno fatto la guerra. Non hanno nemmeno le masse contadine (che per la maggior parte non sono salariati ma sono milioni di piccoli proprietari di “fazzoletti” di terra) timorosi di perdere con l’avvento del bolscevismo il loro podere, quindi sordi a tutte le sirene comuniste.
Insomma nelle due correnti, e tra queste e le masse si è creata una barriera di totale incomunicabilità. Non esiste più spazio per i socialisti. Mussolini è lapidario, caustico ma anche realista “Vogliono fare la rivoluzione, ma se li contiamo i conti proprio non tornano”

 


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