Lunghissimo discorso di Mussolini al Parlamento sui Patti Lateranensi Parte 2
Vi proponiamo il proseguo che possiamo tranquillamente chiamare “Patti Lateranensi seconda parte”
“La capitolazione della Città leonina veniva esclusa. In data 29 agosto 1870, il ministro degli Esteri Visconti Venosta mandava una circolare agli ambasciatori e ministri d’Italia, da comunicare ai Governi, nella quale così si esprimeva
«Il sovrano Pontefice conserva la dignità, l’inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità e inoltre le preminenze verso il re e gli altri sovrani che sono stabilite per consuetudine. Il titolo di principe e gli onori relativi sono riconosciuti ai cardinali della Chiesa romana. La Città leonina resta sotto la piena giurisdizione e sovranità del Pontefice. Si sa che il Tevere divide la città in due parti, di cui l’una situata sulla riva destra del fiume, portò un tempo il nome di Città Santa. La Città leonina contiene oggi una popolazione di quindicimila anime sarebbe suscettibile di contenerne di più. Possiede una grande quantità di Chiese e palazzi. La Chiesa di San Pietro, il Vaticano e le sue vaste dipendenze, le tombe degli Apostoli e dei Papi più illustri, i numerosi monumenti religiosi ed artistici fanno della città leonina una città rimarchevole ed una splendida residenza per il Capo sovrano della cattolicità »
Quando a Villa Albani, nella mattinata del 20 settembre 1870, fu firmata la capitolazione per la resa della piazza di Roma tra il comandante generale delle truppe di Sua Maestà il re d’Italia e il comandante generale delle truppe pontificie, veniva “stabilito : « La Città di Roma, tranne la parte che è limitata a sud dai bastioni di Santo Spirito e che comprende il Monte Vaticano, Castel Sant’Angelo e gli edifici costituenti la Città leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini di polvere, ecc., saranno consegnati alle truppe di Sua Maestà il re d’Italia. Tutta la guarnigione del palazzo uscirà con l’onore delle armi, con bandiere, armi e bagagli, tutte le truppe straniere saranno sciolte e subito rimpatriate per cura del Governo italiano. Le truppe indigene saranno costituite in deposito, senz’armi, e nella giornata di domani saranno mandate a Civitavecchia. Sarà nominata, da ambo le parti, una commissione composta da un ufficiale d’artiglieria », ecc.
Per l’esercito italiano, firmavano il capo dello Stato Maggiore, generale Domenico Primerano, e il luogotenente generale comandante il IV Corpo d’Esercito, conte Raffaele Cadorna; per l’altra parte, il generale comandante le armi a Roma, Kanzler.
Voi vedete che, anche quando le truppe di Cadorna entrarono a Roma, non varcarono il Tevere, non si spinsero sulla riva destra del Tevere e anche quando essendosi determinati disordini nella Città leonina, furono chiesti rinforzi al generale Cadorna, questi, in una lettera al cardinale Giacomo Antonelli, rispose che « avrebbe mandato truppe per sedare i tumulti, ma non vi sarebbero rimaste ».
Quando fu convocato il plebiscito, furono esclusi dalla convocazione gli abitanti della Città leonina, i quali però, il 2 ottobre, votarono lo stesso, e la sera si recarono in Campidoglio, dove furono ricevuti dal padre del nostro camerata Blanc, il quale fece passare i trasteverini, col loro plebiscito, colle bandiere e le fiaccole, e il plebiscito fu accolto. Sette giorni dopo, una commissione si recava da Sua Maestà il re, a Firenze, per portare il risultato del plebiscito romano. Questa commissione si componeva di nomi che hanno ancora un’eco nei nostri cuori : duca Michelangelo Caetani di Sermoneta, Emanuele dei principi Ruspoli, principe Baldassare Odescalchi, cavalier Vincenzo Tittoni, il principe di Teano; poi c’erano anche le rappresentanze della zona di Civitavecchia, di Viterbo, di Frosinone e di Velletri. Ecco che cosa disse Sua Maestà il re, ricevendoli:
«Io, come re e come cattolico, nel proclamare l’unità d’Italia, rimango fermo nel proposito di assicurare la libertà della Chiesa e l’indipendenza del Sovrano Pontefice. E con queste dichiarazioni solenni, io accetto dalle vostre mani, egregi signori, il plebiscito di Roma e lo
presento agli italiani, augurando che essi sappiano mostrarsi pari alla gloria dei nostri antichi e degni delle presenti fortune ».
Magnifiche parole, degne di un gran re.
Nello stesso giorno, veniva emanato un decreto reale da Firenze, importantissimo. Questo decreto dice
« Articolo 1. – Roma e la provincia romana fanno parte integrante del Regno d’Italia.
« Articolo 2. – Il Sommo Pontefice conserva la dignità, l’inviolabilità e tutte le prerogative personali e sovrane.
« Articolo 3. – Con apposita legge verranno sancite le condizioni atte a garantire, anche con la franchigia territoriale, l’indipendenza del Sommo Pontefice e il libero esercizio dell’autorità spirituale della Santa Sede. Il presente decreto sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge ».
Infatti fu presentato al Parlamento e suscitò una grande discussione. Durante questa discussione, in data 20 dicembre, il ministro degli Esteri del tempo, Visconti Venosta, affermava:
« Si potrà dire, o signori, che questo progetto della Città leonina, di cui l’Europa non fu chiamata a prendere atto, ma che abbiamo invece proposto al Pontefice, non è logico dal punto di vista dell’abolizione del potere temporale, ma io credo che il paese non ci avrebbe condannato, ma ci avrebbe approvato, se in cambio di questa concessione noi ci fossimo presentati ad essa con la Questione romana risoluta.
« Era risoluto così il più arduo, il più terribile problema della nostra esistenza nazionale, e sgombrato l’avvenire da ogni incertezza e da ogni difficoltà ».
Dovevano passare ancora cinquant’anni perché questo punto di vista del ministro degli Esteri del tempo fosse realizzato.
Si parlava, dunque, di franchigie territoriali. A questo punto voi mi direte : « Ma perché questa lezione storica? ». Perché voglio dimostrarvi i precedenti, perché voglio dimostrarvi che io sono conseguente, e che non solo noi non rinneghiamo il Risorgimento italiano, ma lo completiamo. (Vivissimi, prolungati applausi. Tutti i deputati si levano in piedi. Agli applausi si associano i presenti nelle tribune).
Ci furono in quel torno di tempo, a Firenze, dove era il Parlamento, tre discussioni interessantissime. La prima fu provocata dal progetto di legge per il « trasporto » della capitale a Roma. Uomini eminentissimi non volevano, all’ultimo momento, procedere a questo « trasporto ». Brutta parola. Non ve n’è un’altra. Un oratore l’osservò anche allora. Stefano Jacini, per esempio, fece un grande discorso per dimostrare come qualmente la capitale dovesse restare a Firenze. « E vero – egli disse – che Roma è più centrale dal punto di vista della longitudine, ma Firenze lo è da quello della latitudine ».
« E vero – aggiungeva ancora – che Roma è più vicina al Mezzogiorno d’Italia »; ma egli affermava che su questo erano in prevalenza i venti sciroccali, il che conduce alla negligenza. Poi osservava che Firenze era città degnissima dal punto di vista dell’arte, dello spirito, della scienza, e infine che Firenze era lontana dal mare; che mentre Roma poteva essere oggetto di un attacco dalla parte del mare – egli non pensava evidentemente ancora ai mezzi di guerra moderni – Firenze, da questo punto di vista era completamente al sicuro. In realtà, si temeva di andare a Roma. Si era abolito il potere temporale, ma si temeva la eventuale solitudine del Vaticano. Un oratore, durante le discussioni, ricordò che, avendo Enrico III fatto assassinare il duca di Guisa ed essendo poi andato a vederlo dietro un velario, steso per terra col pugnale ancora inflitto nel seno, avrebbe detto : « Mon Dieu, qu’il était grand! ». Ora, essendosi distrutto il potere temporale, si temeva quel vegliardo che si era già dato ad una spontanea volontaria clausura.
I mesi che vanno dal settembre al dicembre 1870 furono penosissimi. Dal Vaticano partivano proteste a getto continuo. Proteste, perché si diceva che il segreto epistolare non venisse più osservato; proteste, perché si era dovuto sospendere il concilio ecumenico; proteste, per certe violenze di cui si sarebbero resi colpevoli i soldati dell’Esercito italiano; proteste, infine, per l’occupazione del Quirinale. E Visconti Venosta, ministro degli Esteri del tempo, dovette mandare una lunga circolare a tutti i nostri rappresentanti all’estero per spiegare come qualmente il re d’Italia aveva il diritto di entrare al Quirinale. I cattolici di tutto il mondo, e di tutta Europa specialmente, protestavano.
Ne troviamo le tracce nel Libro Verde. Erano i nostri rappresentanti all’estero che segnalavano al ministro Visconti Venosta tutte le proteste suscitate nel mondo cattolico dopo l’entrata delle truppe italiane a Roma. L’incaricato italiano a Karlsruhe comunicava che nel “Badischer Beobachter” era pubblicato un violento appello, con cui si invitavano tutti i cattolici tedeschi a recarsi a Fulda, sulla tomba di San Bonifacio, per protestare contro gli atti criminosi perpetrati contro la Santa Sede dal Governo italiano.
Sull’importanza dell’adunata cattolica riferiva il ministro italiano in Prussia, in data 6 ottobre. Il ministro italiano a Vienna riferiva che il Casino cattolico politico di Mariahilf aveva mandato pure un memoriale incitante il Governo austriaco a pigliare ogni occasione per adoperarsi alla restaurazione dei violati diritti e della libertà e indipendenza del Papa. Il ministro d’Italia a Bruxelles annunziava una riunione di tutti i vescovi belgi a Malines. Il ministro d’Italia all’Aja annunziava che i cattolici olandesi avevano mandato al sovrano una petizione contenuta in una pergamena della lunghezza di otto metri gremita di firme.
Fu gran ventura che l’Esercito italiano rimanesse sulla riva sinistra del Tevere. Se il Papa fosse stato espulso dall’ultimo angolo di territorio, dal suo palazzo insomma, o se ne fosse andato, gravi problemi si sarebbero affacciati davanti al Governo italiano. Per fortuna, gli avvenimenti erano propizi. Chi poteva commuoversi in quegli anni? Non la Francia, la quale era stata fiaccata dalla Prussia : aveva bisogno di rifarsi, doveva pagare un ingente indennità, ingente allora. Adesso sarebbe uno scherzo. Non la Francia, che aveva perduto due province di grandissimo pregio, che aveva ritirato le sue truppe da Roma, già da tempo, e che tuttavia aveva lasciato a Civitavecchia, quasi come un biglietto da visita, un bastimento che si chiamava l’”Orenoque”, e che vi restò fino al 1874.
La Germania era l’astro che saliva prepotentemente all’orizzonte in quel periodo di tempo, dopo tre guerre vittoriose: quella del ’64, per lo Schleswig-Holstein; quella del ’66, che fiaccò l’Austria a Sadowa; e quella del ’70. Ma la Prussia era protestante. Bismarck non solo non pensava ad aiutare il Papa, ma stava per ingaggiare quella lotta della Kulturkampf dalla quale, bisogna dirlo, egli uscì battuto.
Quando vide, dopo dieci anni, che i deputati del Centro Cattolico erano un centinaio, abbassò le insegne e, chiedendo la mediazione del Papa nella questione con la Spagna a proposito delle isole Caroline, chiamava il Papa con questo appellativo regale : « Sire ». Ma in quel periodo di tempo non poteva marciare e non voleva. L’Austria aveva nelle ossa tutti i dolori delle guerre del Risorgimento, ed era all’indomani di Sadowa, e soprattutto si trovava di fronte al problema per cui è morta, non avendolo risolto: il problema delle sue molteplici razze, le quali avevano allora l’esempio di due popoli che nel corso del secolo XIX erano assurti alla dignità e all’indipendenza di nazione: il popolo germanico e il popolo italiano. Queste grandi potenze mandavano, come mandarono in seguito, dei messaggi patetici; ma non sempre con questi messaggi si modifica il corso delle cose o si cambia la storia degli Stati.
Venne così in discussione, in quel torno di tempo, la legge sulle guarentigie in conseguenza del decreto reale del 9 ottobre, divenuto poi legge. Vi parteciparono, tanto al Senato quanto alla Camera, degli uomini notevoli e taluno di alta rinomanza: Toscanelli, Coppino, Boncompagni, Berti, Bonghi, Crispi, Mancini e, naturalmente, i ministri. Così al Senato : Cambray-Digny, Menabrea, Capponi, Michele Amari, storico eminentissimo. Infine, la discussione pose di fronte tre tendenze. La Sinistra diceva : «Voi date troppo al Papa». Un oratore della Sinistra giunse ad affermare : «Se voi date al Sommo Pontefice tanto di terra quanto basta perché egli vi possa posare sopra la sua sacra pantofola, voi restituite il potere temporale al Papa ».
Precisamente l’onorevole Salvatore Morelli, nella seduta del 24 gennaio 1871, così si esprimeva : «Quando voi trovate nella legge queste condizioni: inviolabilità, immunità dei luoghi dove siede d’ufficio il Pontefice, senza controllo dello Stato, sudditanza dei poteri politici ed amministrativi del Regno ai servizi della Curia, lista civile, onori di re dovuti al Pontefice, internazionalità dei suoi atti e legazie, dominio illimitato di esso sul basso clero, esenzione dei vescovi dal giuramento: quando voi avete queste condizioni, come potete mettere in dubbio che il potere temporale sia restaurato meglio e più forte di quanto non lo era prima della sua caduta? ». Questa era la tesi dell’onorevole Salvatore Morelli.
Viceversa la tesi dell’onorevole Toscanelli era esattamente agli antipodi : «Il Papa non deve sembrare a nessun popolo come soggetto a subire le influenze di qualsiasi Stato: il giorno in cui ciò fosse palese, egli avrebbe perduto il suo carattere di Pastore universale ».
Quindi Roma, quindi la riva del Tevere, quindi la solita striscia al mare. In mezzo, l’opinione media del Governo di allora che, in realtà, con questa legge delle guarentigie ha creato una sovranità.
I1 Papa non era più un suddito, era un sovrano. Usando la terminologia di moda importata dall’americanismo, potremo dire che questa sovranità era al cento per cento? No, non era al cento per cento: mancava qualche cosa, mancava il territorio. C’è la frase tipica : «continua a godere »; ma in realtà era un tacito riconoscimento di una sovranità territoriale; tant’è vero che negli anni che seguirono, giammai ci fu un atto dello Stato italiano che rivendicasse, anche lontanamente, una qualsiasi sovranità nella cinta del Vaticano. A ciò si ridussero le « franchigie territoriali » previste dal già ricordato decreto reale dell’ottobre 1870.
La legge non fu accettata. Alla fine del 1871, l’Italia e Roma erano in questa singolare posizione: il re usurpatore, il Papa prigioniero. Il Papa, che non riconosceva l’unità della patria, che non riconosceva la conquista di Roma e che protestava violentemente in tutti i suoi atti pubblici e diplomatici contro la conquista di Roma, realizzata dalla rivoluzione italiana. Tempi duri, quelli ! Tempi foschi ! E solo nel 1874 che appare uno spiraglio di luce; e questo spiraglio di luce è legato al nome del vescovo Bonomelli. Bisogna ricordare con molta simpatia, anche noi fascisti, quella bella, degnissima figura di patriota e di sacerdote ! Nel 1874 era escluso che si potesse chiedere l’exequatur allo Stato, che aveva violato la sovranità del Pontefice e gli aveva portato via il possesso territoriale dello Stato Pontificio, di Roma. Ma, invece, Bonomelli chiese ed ottenne l’exequatur. Nel 1878, muore il gran re. V’è nel clero un moto di riaccostamento alla nazione, malgrado i veti delle supreme gerarchie della Chiesa. In molte città d’Italia, specialmente della Lombardia, specialmente della provincia di Cremona, vescovi e parroci celebrano grandi funerali alla memoria del re.
Ma il periodo più interessante nella storia della conciliazione è quello che va dall’80 al ’90, e che comincia nel 1881, col discorso tenuto da monsignor Geremia Bonomelli, nel Duomo di Milano, presenti sedici vescovi, e centinaia di sacerdoti, nel quale discorso il vescovo affermava che la pace doveva farsi e che oramai la conquista di Roma doveva essere ritenuta un fatto compiuto e irrevocabile.
In quel periodo di tempo, gli alti e i bassi della conciliazione furono infiniti. Quando il re Umberto si recò a Firenze ad inaugurare la nuova facciata di Santa Maria del Fiore e fu ricevuto dal vescovo, tutti credettero che la conciliazione fosse imminente. Quando, di lì a qualche tempo, il re si recò a Terni, e vi fu ricevuto dal vescovo di Terni, con tutti gli onori dovuti a un sovrano, l’emozione fu grandissima, perché Terni apparteneva agli exStati pontifici. Tutti si occupavano di conciliazione. Se ne occupavano i vescovi e i garibaldini. Stefano Túrr, per esempio, sentì il bisogno di stampare un opuscolo a Parigi per raccomandare ed esaltare la conciliazione.
Non meno interessante fu l’atteggiamento tenuto in quell’epoca dal garibaldino Achille Fazzari, il quale era un valoroso, aveva combattuto ad Aspromonte e a Mentana ed era stato ferito a Monte Libretti. Giuseppe Garibaldi, dedicandogli un sonetto, lo chiamava « mio caro figlio ». Questo energico calabrese stampò, nel principio del 1886, una lettera ai suoi elettori di Catanzaro, che cominciava con queste parole « Bisogna fare la conciliazione ». Questa tesi egli sostenne in lunghe vivaci polemiche superanti anche le frontiere. Quando, nel collegio di Catanzaro, al colonnello garibaldino Achille Fazzari i democratici del tempo opposero Giosuè Carducci, i calabresi, tra il garibaldino e il poeta, preferirono il garibaldino. Diedero diecimila voti a Fazzari e duecento a Carducci.
Achille Fazzari, il 23 giugno 1886, indirizzava una lettera agli elettori calabresi del collegio di Catanzaro, nella quale, a un certo punto, dichiarava:
« La mia bandiera è nuova. Io desidero anzitutto la conciliazione del Vaticano colla monarchia, alla quale facemmo col plebiscito spontaneamente adesione, e l’unione delle loro forze e dei loro intenti in uno scopo comune: la grandezza e il maggior prestigio dell’Italia. Il Papato è la più grande delle istituzioni esistenti, e, pur essendo universale, è essenzialmente italiana, perché, da Roma, dove ha sede, essa stende la sua azione in tutto il mondo. E giacché l’Italia ha questa fortuna sappia avvantaggiarsene ed abbia nel Vaticano un amico, non un forte ostacolo alle sue aspirazioni…. In questa conciliazione, che da molti si ritiene un sogno e a moltissimi parrà una sciagura, è, a mio avviso, una via, la migliore anzi se non la sola, per divenire grandi e rispettati come io desidero che sia grande e rispettata l’Italia; poiché invece del poco curato nostro Regno io vorrei poter concorrere ad edificare un Impero italiano ».
Il 7 marzo del 1887, scriveva a Menotti Garibaldi: « E finito il tempo della camicia rossa; altra cosa è da farsi, voluta nel ’47 da Mazzini e da Garibaldi: la conciliazione ».
E di questo decennio singolarissimo l’episodio Tosti, «quel buon matto di Tosti», come lo chiamava Pio IX. Quando uscì il suo opuscolo, il clamore fu infinito, ma l’Osservatore Romano lo bollava con queste parole : « E uscito il monumento ciclopico della ingenuità cassinese ». Era il momento in cui non si mollava. Leone XIII, visto che Bismarck non marciava, malgrado la démarche Galimberti, e visto che anche Francesco Giuseppe si limitava a generiche assicurazioni, manifestava il desiderio che fosse tolto di mezzo il funesto dissidio; però l’Osservatore Romano del 28 maggio 1887 aggiungeva: «La giustizia è una sola e inflessibile. Essa importa la restituzione di quanto fu tolto e la riparazione dei diritti della Santa Sede violati dalle congiure delle sètte; importa il ristabilimento del potere temporale, specialmente sulla Città di Roma ».
Nel 1887 eravamo dunque in pieno temporalismo. La Città di Roma era il minimo delle pretese. In data 22 giugno 1887 Sua Eminenza Rampolla dichiarava ai ministri esteri e alla stampa : « Non è vero che il Santo Padre intenda abbandonare la rivendicazione del Principato Civile sacro ed intangibile, condizione indispensabile al libero esercizio dell’Apostolico ministero ».
Padre Tosti aveva scritto un opuscolo, il cui protagonista si chiamava « Don Pacifico ». Era un ottimo personaggio, questo frate, ma apparteneva al genere di quegli uomini che sono espansivi al sommo grado e panglossiani altresì. Che credono che certe questioni grossissime possano essere risolte con una parola, con un gesto, con un sorriso. Egli pensava che un incontro tra Umberto e il Papa avrebbe condotto alla pace, che tutto consistesse nel combinare questo incontro. Non era quindi un problema politico; era più un problema di procedura, oserei dire di protocollo. Don Davide Albertario, il tempestoso Don Albertario, il nemico di Geremia Bonomelli, scrisse subito un contropuscolo e se il protagonista dell’opuscolo del Tosti fu «Don Pacifico», il protagonista del contropuscolo dell’Albertario si chiamava « Don Belligero », e aveva inalberato questa insegna : «Restituzione o dannazione».
E singolare che il libro di monsignor Geremia Bonomelli, stampato nel 1889, dopo essere stato pubblicato come articolo sulla Rassegna Nazionale, pur essendo giunto alla quinta edizione allora, oggi sia quasi introvabile. Ho dato ordine che sia ristampato; ma credo che non vi dispiacerà se io vi leggerò alcune pagine di questo insigne prelato. Udite con quale potenza d’immagine, con quale forza di argomenti egli traccia la storia del potere temporale nell’ultimo secolo:
« La procella scoppiò nel 1830 e ’31, e se allora lo Stato Pontificio resse ancora un istante all’urto, fu perché i battaglioni austriaci attraversarono in fretta il Po e spensero nel sangue la rivolta che certamente sarebbe stata vittoriosa con le sole sue forze. Passarono ancora diciotto anni e-una nuova procella percorse tutta l’Italia e l’albero di dieci secoli cadde a terra, ma rimase ancora fitta nel suolo una radice; le foglie appassirono, ingiallirono, ma l’albero non era ancora morto del tutto. Venne una mano gagliarda a rialzarlo, e difatti si rialzò: non si reggeva più da sé, e per tenerlo pur ritto ancora e non lasciarne ad una sola mano, a quella sola mano, l’onore e il vantaggio in faccia al mondo, si aggiunse un’altra mano a sorreggerlo dall’altro lato, e così si ebbe lo strano e doloroso spettacolo di uno Stato di tre milioni di anime che prolungava la sua agonia, sostenuto da due Stati giganti che biecamente tra loro si guardavano. Dieci anni appresso i due giganti emuli, come tutti prevedevano, e moltissimi desideravano, aizzati, vennero tra loro a duello e il vincitore del 1859 rimase unico, non so ben dire se difensore od oppressore del moribondo, mutilato ancora due volte, in due anni, nel ’59 e nel 60.
« Ancora dieci anni di penosa agonia; il vincitore e infido custode a sua volta vinto pur esso da un emulo più potente di lui, cadeva miseramente e con esso l’ultimo lembo del più antico Stato europeo. E quel grande Pontefice che unico aveva superato gli anni di Pietro, era ridotto alla condizione di Pietro, cessava di essere re per rimanere soltanto Pontefice; aveva termine la creazione degli uomini e durava l’istituzione di Cristo; cadeva la porpora regale, era spezzato lo scettro e restavano le sole chiavi. Quel resto di vita che il principato civile del Pontefice sembrava aver negli ultimi quaranta anni, non era suo ma veniva dal di fuori, da forze estranee, avventizie; era una vita datagli quotidianamente a prestito da quelli che avevano interesse a dargliela a loro modo. Il 20 settembre 1870, due mesi dopo la proclamazione dell’infallibilità del Papa, spariva il principato civile sorto nel VII secolo, approvato da Pipino e da Carlo Martello, ridotto alla sua ultima formula di potere assoluto da Alessandro VI.
« E pareva che la Provvidenza aspettasse l’ultimo e massimo esplicamento del primato divino e indefettibile di Pietro, la definizione dell’infallibilità, per lasciar cadere il suo regno terreno. Dopo aver collocato il Pontefice sulla Cattedra incrollabile dell’infallibile suo magistero, permetteva che gli fosse levato sotto i piedi lo sgabello, sì piccolo e sì malfermo, della signoria temporale. La parabola che quaggiù descrivono tutti gli esseri viventi, tutte le istituzioni umane, nascendo, sviluppandosi, perfezionandosi, poi invecchiando e morendo, si compiva e doveva compiersi eziandio nell’istituzione umana del principato civile dei Papi ».
Ma che cosa proponeva monsignor Bonomelli? Citiamo testualmente dal suo opuscolo
« Dunque diasi al Papa almeno la riva destra di Roma, con una striscia fino al mare, con una zona di qualche chilometro dietro al Vaticano, dove si potrebbe a poco a poco fabbricare una città nuova; essa sarebbe un Principato di Monaco, una piccola repubblica di San Marino, o delle Andorre, alcun che di simile. Qui non vi sarebbe alcun bisogno di pubblici uffici, né di guarnigioni, per la sua piccolezza non potrebbe suscitare timori e gelosie nel Governo Italiano, né in altri Governi. Sarebbe un Vaticano allargato con una popolazione di una decina di migliaia di anime o poco più. Per il Governo non creerebbe alcun imbarazzo e lo libererebbe da molti e tosto. Sarebbe una miniatura di Stato, senza noie, senza cura, senza pericoli pel Papa, un ornamento per la Roma regia, una singolarità per l’Europa. Tutti gli uffici ecclesiastici trasportati nella nuova Sion, con le sue poste e telegrafi, con un tronco di ferrovia e tutti gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede alloggiati intorno al Vaticano, quasi testimoni e sentinelle veglianti alla sua sicurezza.
« La nuova cittadella sarebbe una terra di Gessen, un’oasi felice, un santuario nel cuore d’Italia, un asilo di pace, il porto sicuro e tranquillo, il punto che irraggia lume su tutta la terra e ” al qual si traggon d’ogni parte i pesi “, il centro del mondo cattolico, la novella Sion, donde partirebbero gli oracoli e le parole di vita. Quale spettacolo! Qual gloria per l’Italia nostra! Da una parte, sul Quirinale, il re d’Italia; dall’altra, la forza morale, la prima forza morale d’Italia e del mondo; dall’una parte la spada, dall’altra il pastorale: dall’una parte il Pontefice, che prega e benedice; dall’altra il re, che impera; dall’una parte l’uomo della pace, dall’altra l’uomo della guerra; dall’una parte gl’interessi del cielo e delle anime, dall’altra gli interessi della terra e dei corpi; dall’una parte muovono le schiere di pacifici conquistatori, che portano la civiltà del Vangelo alle terre più lontane, dall’altra muovono gli eserciti che difendono le frontiere della patria e si regolano le flotte che solcano i mari; da una parte si curano i bisogni del tempo, dall’altra si provvede a quelli della eternità. I mille e mille pellegrini, laici e religiosi, missionarii, suore, vescovi, uomini d’arti, di scienze, di lettere e d’armi che accorrono a Roma, dopo aver visitato – la Roma antica dei Cesari, la nuova Roma d’Italia, varcando il Tevere deporrebbero ai piedi del Pontefice i loro omaggi, ammirerebbero la grandezza e le glorie di Roma cristiana cattolica. La destra e la sinistra del Tevere, il Quirinale e il Vaticano, il Papa ed il re, la religione e la patria, riunirebbero a vicenda i riflessi del loro splendore, i raggi della loro gloria, e il grido di giubilo di tutta Italia pacificata saluterebbe il maestro infallibile della fede e il difensore della patria. La destra e la sinistra del Tevere sarebbero i due fuochi della ellissi italiana, come scriveva Vincenzo Gioberti. L’Italia sarebbe ancora la terra privilegiata, faro del mondo e segno di invidia ai popoli. I nostri occhi verserebbero lacrime di gioia inesprimibile; i nostri cuori balzerebbero concitati, colmi, riboccanti di giubilo, in quel dì, che il re e l’amabile regina col giovane principe, accompagnati dalla Corte salissero le scale del Vaticano, e il candido Vegliardo, che vi risiede, muovesse loro incontro e si abbracciassero, e i due grandi e supremi amori della religione e della patria, si confondessero in un solo e santo amore. Quel giorno, nel quale il Vegliardo del Vaticano uscisse e si volgesse al Quirinale, tutta Roma si precipiterebbe su i suoi passi, cadrebbe ginocchioni, leverebbe le mani a lui, acclamando e benedicendo: festa simile a quella l’Italia non l’avrebbe mai vista. La bocca della empietà sarebbe chiusa, la Religione tornerebbe regina, e il suo trionfo sarebbe assicurato. Io domando al cielo di poter veder quel giorno avventurato, e poi morire.
« Ma dove sono? Ho io sognato? Sì, ma talvolta i sogni sono profetici, e chi sa che Iddio pietoso, che amò l’Italia sopra tutte le nazioni, che la sostituì al popolo eletto, che la fé centro del mondo cattolico, alle altre innumerevoli prove dell’amor suo aggiunga anche questa! ».
E più oltre
« Ma perché questa miniatura di Stato indipendente, neutralizzato, sulla destra del Tevere, sia possibile e durevole che cosa si esige? Che sia creata, non da forza straniera, né materiale, né morale, ma dagli italiani stessi. Questa nuova creazione deve erompere dalla persuasione intima, spontanea della nazione, la quale sa di far cosa utile e necessaria a sé stessa, che lungi dall’affievolirla la rafforza, lungi dal dividerla la unisce, lungi dall’umiliarla l’onora altamente in faccia al mondo. Onora e afforza altresì la Santa Sede, perché assicura la sua indipendenza e dignità, perché disarma un partito potente, che la combatte, perché mostra al mondo il suo amore per la pace, per l’unità d’Italia, perché l’opera del Clero sarà più libera e fruttuosa e avrà nel Parlamento e nel Senato voci eloquenti che difenderanno gli interessi morali e religiosi senza timore di sentirsi dire in faccia: Voi siete nemico della patria! Questa sovranità in miniatura scioglie la Santa Sede dalle cure secolaresche, che discussione volse anche intorno ai punti sostanziali dell’eventuale soluzione. Si parlò di un territorio che cominciasse da Ponte Sant’Angelo, includendovi il Castello, di uno sbocco al mare e di una garanzia delle altre nazioni, da ottenersi attraverso la Lega delle nazioni.
Monsignor Kelley doveva partire all’indomani per l’America, ma avendo il piroscafo ritardato di due giorni la partenza, tra il 18 e il 20 maggio, Brambilla ben cinque volte, a nome di Orlando, insistette presso il prelato perché, invece di tornare in America, andasse a Roma, a riferire al cardinale segretario di Stato. Monsignor Kelley alla fine acconsentì, e arrivò a Roma il 22 maggio. Lo stesso giorno andò in Vaticano da monsignor Cerretti, allora segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, che lo accompagnò subito dal cardinale Gasparri, al quale espose tutto colla massima precisione.
Il cardinale e monsignor Cerretti andarono subito dal Papa e tornarono, dopo un’ora, dicendo che lo stesso monsignor Cerretti il giorno 24 sarebbe partito per Parigi per incontrarsi con Orlando, e che monsignor Kelley lo avrebbe accompagnato, senza però più occuparsi della Questione romana.
II 1o giugno, previi accordi con Brambilla, monsignor Cerretti si incontrò con l’onorevole Orlando nella camera 135 dell’u hótel Ritz ». Orlando confermò tutta la conversazione avuta con monsignor Kelley. Monsignor Cerretti gli sottopose un breve esposto della Questione e della sua possibile soluzione, scritto di propria mano dal cardinale segretario di Stato.
Finita la lettura del documento, Orlando disse che, in massima, accettava, e si passò alla discussione dei punti principali.
Si trattava sempre di una notevole estensione territoriale, la quale il promemoria del Vaticano domandava che cominciasse dal fiume, per avere in questo una visibile linea di confine che comprendesse i borghi e altro territorio notevole di là dal Vaticano. Orlando preferiva invece che il territorio cominciasse con il Vaticano e si estendesse dietro questo per escludere una parte molto abitata della città. Si concluse che la questione dei territorio si sarebbe potuta più agevolmente discutere poi, perché, una volta assodata la base territoriale, la maggiore o minore estensione del territorio stesso diventava una questione intorno alla quale sarebbe stato facile trattare. Un altro punto importante della discussione fu intorno al riconoscimento delle altre potenze, perché, secondo il promemoria, il territorio pontificio avrebbe dovuto essere garantito anche dalle altre nazioni. Questa garanzia si sarebbe potuta chiedere e ottenere attraverso la Società delle nazioni, che appariva allora all’orizzonte e della quale in quel momento si aveva un concetto molto maggiore di quella che fu poi la realtà. L’onorevole Orlando disse che l’Italia stessa avrebbe domandato a questo scopo l’entrata della Santa Sede nella Lega.
Il 9 giugno, Brambilla, per incarico di Orlando, andò da monsignor Cerretti a dirgli che il Presidente aveva incaricato l’onorevole Colosimo di informare del progetto tutti i ministri ed il re, ed infatti in quei giorni i giornali annunziarono che l’onorevole Colosimo era stato ricevuto dal sovrano. Ma il 15 giugno l’onorevole Orlando, tornato a Roma, ed affrontando il voto della Camera, si trovò in minoranza e diede le dimissioni.
Di queste trattative si ha la documentazione nelle note tanto di monsignor Kelley, quanto di monsignor Cerretti, ora cardinale. Le note anzi di monsignor Cerretti, furono mostrate qualche tempo dopo gli avvenimenti allo stesso onorevole Orlando, che le trovò pienamente esatte.
Le conversazioni con i successori di Orlando – prefascismo – non ebbero altra base che quella stessa che era stata messa con l’onorevole Orlando, e furono anche meno importanti di quelle avvenute con quest’ultimo.
Intanto la Francia ritornava a Roma, chiudendo la parentesi della rottura prodotta dalla visita di Loubet al re d’Italia nel 1904. Millerand, in nome del Governo francese, così si esprimeva: « Il Governo della Repubblica giudica venuto il momento di riannodare col Governo pontificio le nostre relazioni tradizionali. Il Governo francese deve essere presente laddove si dibattono questioni che interessano la Francia. Questa non potrebbe restare più a lungo assente dal Governo Spirituale, presso il quale la più parte degli Stati hanno avuto cura di farsi rappresentare ».
Tutti gli Stati, signori, meno l’Italia. Vi consiglio di procurarvi l’Annuario Pontificio del 1929, perché vi troverete l’elenco di tutti i di plomatici accreditati presso la Santa Sede, e avrete anche una idea della potentissima organizzazione cattolica in tutto il mondo.
Naturalmente, il ritorno della Francia a Roma suscitò delle polemiche di cui è rimasta traccia in una pubblicazione del ministero degli Esteri, che vi consiglio di leggere anche per abbreviare il mio discorso.
E’ intitolata: “Una nuova discussione su i rapporti fra la Chiesa e lo Stato in Italia”.
FINE SECONDA PARTE